Emergenza Coronavirus e l’esercito umanitario di medici ed infermieri: la storia di Giovanni Francesco

Giovanni Francesco -La foto ritrae il giovane infermiere in un attimo di svago nel pieno della pandemia. Sulla divisa notiamo la scritta goliardica. I camici venivano siglati con il nome o una scritta che potesse portare a riconoscere il collega, poco ravvisabile dalle protezioni DPI.

ImpresInforma, con questa bellissima, struggente e chiarificatrice intervista al giovane infermiere Giovanni Francesco da parte della nostra brillante Clara Gambino, intende rendere omaggio ai nuovi eroi di un fronte subdolo e pericoloso come quello del Covid-19. Allo stesso tempo, intendiamo ringraziare i nostri giovani, qualche volta criticati per i loro comportamenti, che rappresentano il futuro di una Nazione che, nonostante i non eccelsi esempi provenienti da una politica incapace molto spesso a dare loro risposte adeguate, non si piega e guarda la futuro con ottimismo.

Nel 1915 i giovani dovevano arruolarsi, partire per il fronte in vista della grande guerra mondiale. A distanza di più di 100 anni, il giovane italiano decide di partire per essere di aiuto in quella che oggi può essere definita una guerra silenziosa, senza armi e contro un unico nemico invisibile: il Covid-19.

Clara Gambino

Questa è la storia di Giovanni Francesco, un infermiere di 31 anni. Proveniente da un piccolo borgo della provincia di Avellino, nel Sud Italia, che il 27 febbraio di questo anno solare, riceve la convocazione, tramite posta certificata, dall’ospedale Maggiore di Lodi.

A seguito della partecipazione al Bando per l’acquisizione di figure professionali, quali infermieri, disponibili a prestare attività assistenziale, in relazione all’emergenza Coronavirus nella regione Lombardia.

L’intervista è stata fatta telefonicamente in quanto a dividerci erano gli innumerevoli km e in maniera amichevole.

Tant’è che sveglio Giovanni Francesco, intento a godersi il suo giorno libero, in riva ad un fiume della zona “Non mi ero dimenticato della tua telefonata, ma nell’attesa mi sono assopito”.

Cosa ti ha spinto ad intraprendere questa nuova esperienza lavorativa distante da casa e in piena emergenza sanitaria?

“Ero nella fase del lockdown, come tutti d’altronde, sempre intento a guardare la tv e tutti i mezzi di comunicazione che mi tenevano informato su che cosa stesse affrontando il nostro Paese in quel periodo.Senza pensarci e approfittando dei requisiti richiesti dal bando, decisi di candidarmi.

Ero già in possesso di una occupazione presso una RSU privata della mia zona, ma volevo fare esperienza nel campo dell’assistenza ospedaliera pubblica e vedere con i miei occhi se realmente quella vista sullo schermo fosse realtà.

Senza esitare accettai e partii. E arrivato li, la realtà era proprio quella che vedevamo in tv.

L’ospedale non aveva più un reparto specifico per la cura di determinate malattie, ma era interamente dedicato e messo a disposizione per affrontare l’emergenza da Coronavirus.

L’inizio è stato duro, lo ammetto, e lo paragono all’infermo in tutti i sensi.

Non ci fermavamo mai.

Turni estenuanti. Ma la mole di lavoro era tanta.”

Puoi raccontarci cosa hanno visto i tuoi occhi in questi 3 mesi di sofferenza?

“Tutti i reparti interamente Covid19 erano invasi da pazienti, di fasce di età dai 28 ai 70 anni. Si vedevano soprattutto adulti tra i 40 a i 50 anni, quindi giovani e positivi ai tamponi. Intubati e sofferenti. Quindi non è vero che il virus abbia colpito solo persone della terza età.

Ogni giorno si arrivava a registrare quasi 100 decessi, soprattutto in piena pandemia.

Solo nel mio reparto – Area blu- dove prestavo servizio, se ne assistevano almeno 4 al giorno.

Quelli che ho avuto modo di registrare io sono stati 25 deceduti a causa del virus.

Il conforto lo trovavo distante da casa e nei miei colleghi che come me avevano fatto capo al bando e altri, ormai veterani del posto.

Vivevamo letteralmente in ospedale all’inizio.

Gli uffici dell’ultimo piano erano stati adibiti come camerate di 2/4 posti letti per ogni stanza.

Condividevamo i servizi sanitari e la mensa dell’ospedale. Sembravamo realmente di essere in guerra, ma il nemico non aveva una divisa per poter essere riconosciuto.

Ma era invisibile e si attaccava alle superfici, era nell’aria ma senza un volto.

E inizialmente non eravamo solo noi operatori sanitari, medici ed infermieri ad affrontare questa ormai missione, ma Lodi è stato l’unico ospedale, assieme a quello di Bergamo, ad essere aiutato dalla presenza dell’Esercito italiano e della Aeronautica Militare.

Poi andati via in maniera scaglionata, quando la situazione non era più grave. Anche a loro dobbiamo il nostro plauso.”

Ci sono dei momenti che ricordi particolarmente e che custodisci affettuosamente?

“Ho avuto modo di conoscere tanti pazienti, alcuni di loro non ce l’hanno fatta. Ma quello che porto vivo, è il ricordo di un ragazzo, un giovane parrucchiere di Cremona di 40 anni.

Passavo ogni giorno nella sua stanza, parlavamo. Chiedevo di lui. Di come stesse.

Lui ce l’ha fatta, attraverso la fisioterapia ed ossigeno terapia.

Ho perso ormai i contatti da quando  è stato dimesso, e suppongo che oggi sia di nuovo all’opera nel suo salone.

Un altro piacevole ricordo è stato quando il 7 di agosto, io ero finalmente riuscito a prendere qualche giorno libero e tornare a casa, giù in Campania, ricevo la telefonata dei miei colleghi: Giovanni, l’ospedale di Lodi da oggi è Covid free.

Ce l’abbiamo fatta!

Qui ho esultato peggio della vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio. Da quel giorno l’ospedale è completamento libero dal virus.

Oggi le aree hanno ripreso la loro funzione ed io ora sono stato collocato in quella Arancione, in cardiologia e pneumologia.

Nelle ultime settimane purtroppo la linea dei contagi è nuovamente risalita. Per questo ogni paziente è sottoposto al tampone e se positivo viene allocato presso l’area Grigia, in attesa del secondo. Viene assistito e riceve le cure necessarie in base alla patologia che lo ha portato in clinica.”

Quale messaggio oggi ti senti di trasmettere per prevenire il Coronavirus?

“Distanziamento sociale e utilizzo della mascherina sono le parole chiavi.

Anche quando si decide di uscire con gli amici, cercare di contenersi e stare al proprio tavolo ed alzarsi solo se abbiamo indossato la mascherina.

Anche quella chirurgica, l’importante è tenerla sempre.

Io a volte, ormai preso dall’abitudine, dimentico il cellulare a casa ma mai, questa che considero una seconda pelle. Riduce almeno del 90% il rischio di contagio.

Un altro consiglio che vorrei dare, è quello di non allontanarsi troppo dall’Italia, restando nella nazione. Almeno per questo anno.

Ciò che ha portato beneficio è stato soprattutto il lockdown: senza la chiusura totale della nazione, il servizio sanitario del nostro Paese sarebbe collassato.

Oggi non voglio essere considerato un eroe o un martire di guerra. Ma solo uno dei tanti ragazzi che, a seguito di questa pandemia, ha dato la sua mano.

Ha fatto quello che potevo, sono partito da libero professionista e che appena possibile, vorrebbe finalmente mettere in atto questa esperienza, nella sua terra natia.”

Dio non può essere ovunque, ma in questa emergenza sanitaria mondiale, si è materializzato sotto forma dei nostri medici ed infermieri.

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