L’Europa del Recovery Fund e i conti italiani

All’alba del 21 luglio un affaticato presidente del Consiglio Europeo,Charles Michel, annuncia la lieta novella. “Habemus Recovery Fund” sembrano gridare in coro i leaders europei riuniti a Bruxelles che, dopo una estenuante maratona di accordi,negoziati e compromessi di ogni tipo, sono finalmente approdati ad una decisione comune, quasi come avvenne nel conclave del 1270 a Viterbo in cui i cittadini, stanchi per l’eccessivo protrarsi della scelta del nuovo Papa, scoperchiarono il tetto della sala in cui si riunivano i cardinali costringendoli a prendere una frettolosa decisione. I leaders europei erano pressati, da un lato, dalle esigenze delle economie eccessivamente provate dalle misure di contenimento del virus e, dall’altro lato, dalle pressioni rivenienti dalle popolazioni di riavviare i motori spenti delle economie.

I ventisette paesi che costituiscono l’Unione Europea hanno raggiunto un accordo che può essere definito sicuramente storico. Ci sono voluti ben quattro giorni e quattro notti di un negoziato al cardiopalma, sempre in bilico tra fallimento e successo. Ma alla fine il dai e vai ha prodotto un risultato le cui proporzioni potranno essere valutate solo nel prossimo futuro.

Non solo è stato approvato il bilancio dell’Unione per i futuri sette anni, per una somma di 1.074 miliardi di euro, ma i ventisette Paesi hanno, soprattutto, istituito il cosiddetto Fondo della Ripresa per un importo di ben 750 miliardi di euro, di cui 390 come sussidi (fondo perduto) e 360 miliardi di euro di prestiti. Il Fondo per la Ripresa comincerà a distribuire risorse tra il 2021 e il 2023, e funzionerà fino al 2026.In sostanza è la prima volta nella sua storia che l’Unione Europea decide di indebitarsi attraverso il reperimento di tale somme sul mercato finanziario e del risparmio.

Il governo Conte è riuscito a strappare circa 80 miliardi di sussidi e 120 miliardi di prestiti. Ovviamente i Paesi europei, Italia in testa, dovranno accettare di subire dei controlli, meno asfissianti di quelli del vecchio Mes, in stile Grecia, circa il corretto utilizzo delle somme. Inoltre, i prestiti, seppur concessi a tassi agevolatissimi, dovranno essere prima o poi restituiti facendo, a questo punto, ci si augura, cadere anche le perplessità circa l’utilizzo delle somme del MES (Salvastati) che presentano l’unica condizione di dover essere destinati all’ambito sanitario.

Bisogna riconoscere che il dato puntuale consegna un risultato davvero eccellente per l’Italia, mentre per l’Europa è la conferma della sua utilità in quanto davanti alla crisi ha saputo reagire con forza e decisione mettendo a segno un colpo che sa di storico.

Ora ovviamente arriva il tempo di spendere bene questa enorme massa di danaro con la speranza che vengano utilizzati per creare lavoro vero, per gli investimenti e non per meri sussidi e assistenza. Solo così sarà possibile sperare in un ammodernamento infrastrutturale ed imprenditoriale del Paese. Questa volta ha vinto l’idea di una Europa solidaristica e non quella delle divisioni. Ma è anche il riconoscimento dello stato disastroso in cui versa l’economia italiana che il Covid ha solo evidenziato.

Il rilancio dell’economia italiana e del suo sistema produttivo è stato da mesi all’ordine del giorno dell’agenda di governo soprattutto a seguito dei nefasti effetti generati dal lockdown posto a barriera rispetto alla diffusione del virus di importazione cinese Covid-19 e, inevitabilmente, la discussione si è caricata più di polemiche che di confronti e proposte.

Le interviste, le dichiarazioni e gli interventi dei vari leader politici italiani, durante questi mesi e dopo la conclusione degli Stati Generali, voluti dal Governo Conte, per ascoltare i protagonisti del sistema economico italiano, hanno prodotto polemiche e dibattiti soprattutto per quanto riguarda le politiche dell’Unione Europea verso l’Italia e, più in generale, per mettere al riparo l’economia del vecchio continente rispetto ai grandi players mondiali, in primis gli Stati Uniti a trazione trumpista e la Cina, capitalista in economia e rigidamente comunista e antidemocratica sul piano politico.

Al di là delle intemperanze verbali e delle cadute di stile che caratterizzano da sempre la vita pubblica italiana è opportuno comprendere cosa è stato messo all’ordine del giorno nella discussione tra i governi europei.

Le vicende che stanno caratterizzando il 2020 resteranno a lungo nella memoria. Un virus, nemmeno un batterio o un microbo, passato nei libri di medicina con il nome di COVID-19, ha messo in discussione non solo la salute e la vita di migliaia di cittadini, ma soprattutto ha rischiato di mettere in discussione le conquiste economiche e sociali che negli ultimi secoli il mondo, soprattutto occidentale, ha saputo conseguire.

Ma il nuovo coronavirus ha rischiato e rischia ancora, almeno fino all’agognata scoperta di un vaccino efficace, di mettere in discussione e travolgere anche la vita di istituzioni che erano sorte, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, per assicurare la pace in una Europa rissosa che, nei secoli passati, ha saputo scatenare guerre di ogni tipo, tra le quali ben due guerre mondiali.

Il sogno di Altiero Spinelli e dei grandi statisti europei del dopoguerra come De Gasperi, Schumann e Adenauer, di mettere insieme le nazioni e i popoli europei per indirizzarli all’unico obiettivo della nascita di uno stato europeo, sembra arrancare sotto le bordate di un sovranismo che, facendo leva su un distorto concetto d’identità, pretenderebbe di esportare o di estendere la propria agli altri.

Esercitare, invece, la solidarietà ed il principio del mutuo soccorso, comprendere le differenze e riconoscere l’altro come diverso da sé, in scia con quanto afferma uno dei pensatori della destra europea come Alain de Benoist, sembra essere diventato un mero esercizio di retorica e di filosofia astratta, lasciando libero il campo all’egoismo nazionalistico e all’individualismo delle lobby.

Tra i popoli europei le differenze sono ovviamente tante e di ogni tipo, sia sull’asse est-ovest che su quello nord-sud.

Max Weber ci ha, da tempo, insegnato come, negli ultimi secoli, le nazioni protestanti dell’Europa del nord (lui aggiunge anche quelle dell’America del nord) abbiano mostrato un dinamismo economico di tipo capitalistico superiore rispetto ai paesi cattolici dell’Europa del sud (Spagna, Portogallo, Italia, Grecia in particolare).

Al di là della condivisione e veridicità di tale pensiero, esso testimonia la presenza di linee di demarcazioni culturali in Europa che hanno avuto sempre difficoltà di composizione.

E’ fondamentale aver presente che l’Europa si fonda quindi su palesi differenze avendo fatto incontrare le grandi culture latine con quelle germaniche, legate a loro volta a doppio filo dal cristianesimo e dal giudaismo.

Quando l’Unione Europea fu, in qualche modo, partorita sulla scia di precedenti accordi esclusivamente commerciali, qualcuno aveva immaginato di alimentare la speranza di una sede unica in cui discutere dei destini di una “sola ed unica” Europa.

Le istituzioni, nel frattempo nate, avevano il compito di agevolare questo percorso, come è avvenuto per la Banca Centrale Europea che pur non battendo moneta è diventata, insieme alla Federal Reserve e alla Banca Nazionale Cinese, una protagonista indiscussa nel panorama finanziario internazionale grazie all’Euro.

Ovviamente le istituzioni europee scontano il grande limite di non aver ancora abbattuto definitivamente gli stati-nazione e quindi non riescono a creare politiche unitarie in settori cruciali quali la politica estera, la difesa, la giustizia, la fiscalità determinando delle differenze tali da fa emergere volontà e desideri antieuropeisti.

Ma negli ultimi decenni gli stati europei hanno maturato nuove consapevolezze tra le quali quelle di dover difendere la cultura e l’economia continentale soprattutto dalle crisi provenienti dagli Stati Uniti le cui gigantesche dimensioni mettevano in discussione, per la prima volta, sul piano finanziario non solo il sistema imprenditoriale ma anche quello degli stessi stati sovrani.

Il 17 dicembre 2010 il Consiglio europeo concordò sulla necessità, per gli Stati membri della zona euro, di istituire un meccanismo permanente di stabilità capace di intervenire, secondo precise e rigorose condizioni, a sostegno degli stati in crisi di liquidità in sostituzione del Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF) e del meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (EFSM).

Nella seduta del Consiglio dei Ministri n.149 del 03/08/2011 fu approvata e ratificata la “Decisione del Consiglio europeo 2011/199/UE, che modifica l’articolo 136 del Trattato su funzionamento dell’Unione europea relativamente ad un meccanismo di stabilità (ESM- European Stability Mechanism) nei Paesi la cui moneta è l’euro” precisando anche che “l’obiettivo della Decisione è far sì che tutti gli Stati dell’Eurozona possano istituire, se necessario, un meccanismo che renderà possibile affrontare situazioni di rischio per la stabilità finanziaria dell’intera area dell’euro”.

Il 9 dicembre 2011 i capi di Stato o di Governo degli Stati Membri dell’Unione decisero di rafforzare l’integrazione economica prevedendo un nuovo patto di bilancio e un rafforzamento del coordinamento delle politiche economiche da attuare attraverso “il Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (TSCG)”. Con tale trattato i Paesi europei, nel dichiarare di essere consapevoli del loro obbligo di considerare le loro singole politiche economiche una questione di interesse comune e nel tentativo di favorire le condizioni per una maggiore crescita economica nell’Unione europea, assunsero l’impegno di garantire che il disavanzo pubblico dei Paesi europei non superasse il 3% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato e che il loro debito pubblico non superasse il 60% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato o si riducesse in misura sufficiente avvicinandosi a tale percentuale.

Con legge 23/07/2012 n.116 (G.U. n.175 del 28/07/2012) è stato ratificato ratificato dal Parlamento italiano l’istituzione del MES che è pienamente vigente senza necessità alcuna di ulteriore intervento di attivazione.

In sintesi, il MES non è altro che il cosiddetto Fondo Salva-Stati, nato come fondo finanziario europeo per assicurare la stabilità finanziaria della zona euro, istituita dalle modifiche al Trattato di Lisbona approvate il 23 marzo 2011 dal Parlamento europeo e ratificate dal Consiglio europeo a Bruxelles il 25 marzo 2011.

Tale strumento può contare su una “potenza di fuoco” poderosa pari a circa 700 miliardi di euro con un apporto in percentuale da parte degli stati membri (con quasi il 27% del capitale la Germania è il primo contributore; l’Italia partecipa con il 18%).

Il MES può concedere prestiti ai Paesi in difficoltà – e lo ha fatto finora con Cipro (€6,3 miliardi), Grecia (€61,9 miliardi) e Spagna (€41,3 miliardi) – ma nella versione precedente al Covid-19, a fronte di una rigida condizionalità. In pratica chi riceve i prestiti si obbliga ad approvare un memorandum d’intesa che definisce con precisione e rigore quali misure si impegna a prendere in termini di tagli al deficit/debito e di riforme strutturali.

La discussione sul MES è venuta fuori a seguito degli interventi legislativi emanati dal Governo italiano durante il periodo di lockdown con i quali il Governo Conte tentava di mobilitare risorse attraverso il meccanismo delle garanzie e quindi non ricorrendo alla liquidità.

La domanda che a questo punto sorge è sul perché il Governo non ha messo in campo liquidità aggiuntiva e denaro fresco. La risposta è molto semplice. L’Italia quei soldi in tasca non li ha. Ma perché non li ha?

L’Italia, inutile nasconderlo, è tra i paesi più indebitati al mondo. In effetti, il rapporto debito/Pil, che a inizio anni ‘80 si attestava intorno al 60%, è esploso nei dieci anni successivi fino ad arrivare al 100% nonostante una buona crescita economica del Paese. Nel 1994 il debito pubblico italiano raggiunse il 124% del Pil, mentre a fine 2018, secondo Eurostat era pari al 134,8% del Pil e ora, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale dovrebbe attestarsi intorno alla percentuale record del 166%.

Nella zona dell’Euro solo la Grecia, con il 181,2% a fine 2018, ha un rapporto debito/Pil superiore a quello italiano. Sopra quota 100% ci sono il Portogallo, il Belgio e Cipro. Tra il 60 e il 100% ci sono la Francia, la Spagna, l’Austria, la Slovenia, l’Irlanda e la Germania. Tutti gli altri restano al di sotto del 60 per cento.

Perché indebitarsi? Uno Stato deve spendere denaro (spesa pubblica) per garantire servizi ai propri cittadini, oppure per sostenere la propria crescita economica e i propri investimenti, così come per finanziare il proprio deficit (che si genera se le uscite superano le entrate). Quando questo denaro viene chiesto in prestito lo Stato contrae un debito: chiamato, appunto, debito pubblico.

Il debito viene contratto con soggetti pubblici e privati, nazionali o esteri. Lo strumento finanziario più utilizzato per raccogliere il denaro (e quindi contrarre il debito) è l’emissione di obbligazioni a breve, media e lunga scadenza: i Titoli di Stato. Per pagare questi interessi lo Stato è costretto ad indebitarsi sempre di più con tassi d’interesse sempre più elevati.

Quindi Conte e Gualtieri i soldi non li potevano di certo inventare e non potevano attingere ad una liquidità inesistente, a differenza di quanto capita in Germania che, invece, riesce a fare manovre in bilancio perché ha un rapporto deficit/pil decisamente inferiore. Insomma, la Germania è più ricca, non tanto perché produce e vende di più, ma perché in giro non ha tanti debiti con i propri titoli di stato.

Conte e Gualtieri, facendo ricorso al sistema delle garanzie, avevano individuato l’unica possibilità concreta per mobilitare risorse evitando di far ricorso alla tassazione.

L’Eurogruppo, bisogna riconoscerlo, aveva assunto impegni senza precedenti attivando fondi vecchi e nuovi per fronteggiare la crisi pandemica.

Il primo intervento, passato fin troppo sotto silenzio, è stato deciso proprio dalla BCE che è stata l’istituzione europea che prima di tutte è intervenuta a sostegno dei paesi economicamente in sofferenza, tramite un massiccio programma di acquisto titoli a partire dal 18 marzo 2020 che, per un importo di circa 220 miliardi di euro (12% del PIL italiano), saranno destinati all’acquisto di titoli italiani nel corso dell’anno 2020.

Il secondo intervento è rappresentato dal famigerato MES, in versione light rispetto a quanto era previsto alla sua origine, non prevedendo condizionalità riguardo al suo utilizzo, con la sola eccezione della finalità di spesa da riservare esclusivamente all’ambito sanitario. Pwertanto, ogni Stato membro che intendesse attivare il MES, potrebbe farlo fino al 2% del proprio Pil. Per l’Italia sarebbero circa 36 miliardi di euro, per fronteggiare esclusivamente il Coronavirus. Tale intervento è sostanzialmente un prestito da restituire in dieci anni al tasso annuale dello 0,1%, decisamente inferiore al tasso che l’Italia è costretta a pagare per gli interessi dei propri titoli stato.

Il terzo pilastro su cui si fonda la strategia dell’Unione Europea è il SURE che è un fondo destinato a fronteggiare i rischi di disoccupazione dovuti all’emergenza. Si tratta di un fondo, a cui volontariamente gli Stati membri possono decidere di aderirvi per sostenere la lotta alla disoccupazione e alla crisi che le imprese stanno affrontando. L’UE emetterà bond, finanziandosi sui mercati fino a 100 miliardi di euro. Tassi, costi, durata e modalità tecniche di attuazione di questo prestito saranno prese di comune accordo tra il paese che vi aderisce e la Commissione Ue. L’Italia sembra possa aderire a questo fondo per un importo massimo di circa 20 miliardi di euro.

Il quarto intervento è la vera novità, oggetto dell’accordo trovato nella notte tra il 20 ed il 21 di luglio, ed è rappresentata dal Recovery Fund che, in estrema sintesi è un fondo garantito dal bilancio a lungo termine dell’Unione europea che emetterà dei titoli (recovery bond) sui mercati, dopodiché distribuirà le risorse raccolte agli Stati membri che dovrebbero ammontare a circa 750 miliardi di euro, tra somme a fondo perduto e somme in prestito.

Insomma, l’UE mette a disposizione una notevole potenza di fuoco per fronteggiare il momento della pandemia e per assicurare la ripresa della produttività e dell’espansione dell’economia italiana ed europea che, per la verità, presentano stime previsionali ottimistiche visto che nella zona euro, l’economia dovrebbe calare dell’8,7% nel 2020 (7,7% stimato in maggio). La ripresa è prevista del 6,1% nel 2021 (6,3% previsto due mesi fa). Sul versante che riguarda l’Italia, il calo dovrebbe essere dell’11,2% quest’anno, con una ripresa del 6,1% l’anno prossimo. In maggio, la Commissione aveva previsto rispettivamente: -9,5% e +6,5%.

Purtuttavia l’impegno dell’UE è sufficiente per comprendere come una economia come quella italiana, fatta in larga parte da piccole e medie imprese impegnate nella manifattura e nei servizi, non possa fare a meno di un ombrello protettivo per poter immaginare di competere con le economie della globalizzazione.

Infine, le decisioni della UE dovrebbero servire anche per dirimere ogni dubbio e dissenso sull’efficienza, sull’efficacia e sulla capacità delle istituzioni europee, che pure necessitano di un aggiornamento e di una rivisitazione profonda, di rispondere alle esigenze dell’economia e della finanza europea, facendo amaramente pentire, in questo modo, gli inglesi della Brexit e qualche focoso amante di politiche messe in campo nel nome di un nazionalismo che non ha più ragioni di esistere.

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