Pandemia, il nuovo malessere sociale o la nuova terapia razionale- emotiva dell’essere umano?

I Maya avevano previsto la fine del mondo il 21 dicembre del 2012.

A noi è sembrata viverla con più ritardo, precisamente dopo 8 anni, a partire dal 9 marzo 2020.

Questo sarà un anno che porteremo nei nostri ricordi, lo racconteremo alle future generazioni, a chi verrà dopo di noi.

C’è chi ne scriverà un libro, chi ne trarrà un film o magari una serie televisiva, come quelle viste e riviste durante il lockdown.

Sono stati 3 mesi delicati, di solitudine anche se in compagnia, di preoccupazione.

E forse grazie alla contrastante tecnologia, siamo riusciti a tenerci in contatto, ad essere informati sui reali o irreali fatti del mondo, sulla vita altrui.

Ci siamo sentiti tutti insieme seppur in solitudine.

Il cosiddetto periodo pandemico, ha avuto delle ripercussioni a forte impatto nella nostra realtà.

Abbiamo avuto tempo per pensare, magari rassettando casa.

A conoscere più a fondo il nostro IO.

I nostri bisogni.

A riconoscere i veri legami, magari anche quelli persi strada facendo.

Per la mancanza di tempo o voglia di riprenderli.

Abbiamo, tutti, imparato a valorizzare professioni per anni odiate.

Chi di noi non si è mai lamentato di un medico, di quello che avrebbe dovuto o potuto fare accorgendosi in tempo con un esame di routine o attraverso una diagnosi più approfondita?

Tutti!

Chi non ha mai inveito, almeno una volta nella sua vita, contro il personale del pronto soccorso, per la mancata attenzione nei nostri o nei

confronti di un familiare, portato d’urgenza in ospedale?

La quasi totalità della razza umana.

Il Covid ci ha permesso di apprezzarli.

Di amarli a distanza.

Di rivalutarli.

Anche se ora sembra solo un lontano ricordo.

Abbiamo sperimentato il cosiddetto smart working, la nuova visione del lavoro comodamente da casa.

Che ancora oggi, ci permette di raggiungere obiettivi tramite la flessibilità e l’autonomia.

E dal punto di vista dell’azienda, si è assistito ad un innalzamento del tasso di produttività, riducendo quello dell’assenteismo.

L’Italia essendo un Paese abitudinario per antonomasia, ha dovuto a stretto giro, essere al passo con i tempi.

Con le altre Nazioni.

Ma non a imparare a reiventarsi, perché per questo, siamo stati sempre i primi.

Abbiamo pianto tra le mura domestiche appena appresa la notizia di una mancanza vicina, di un conoscente.

Ma in quel momento troppo distante per esserci.

Che seppur a pochi metri, non abbiamo potuto fargli visita e vederla per l’ultima volta.

Non abbiamo potuto celebrare il rito funebre e tutto ciò a cui siamo da sempre abituati sia per Credo e sia tradizione.

Non siamo stati partecipi neanche alle venute al mondo dei bambini, intravedendo a distanza mamme sole, preoccupate e senza incoraggiamento.

Piano piano senza accorgecene, abbiamo dato più valore alle piccole cose, spesso dimenticate.

Al tendere una mano.

Alle interazioni vis a vis.

Abbiamo magari, pregato in silenzio e non in Chiesa, confessati di nascosto e a fondo i nostri peccati.

Assolti in autonomia.

Perché quando qualcosa ci viene negato, iniziamo ad apprezzarlo nella sua totalità.

Qualunque cosa essa sia.

Ci è mancato il fatto che pensando ad una persona non più viva, avessimo tutti la sensazione di averla trascurata al cimitero per un lungo tempo.

Magari l’abbiamo rivissuta nei nostri ricordi, con una foto.

Un pensiero.

Una candela simbolica.

Abbiamo avuto tutto il tempo per pensare che non ci sia più.

Abbiamo perso gran parte della generazione dei nostri nonni.

Le nostre biblioteche, che seppur senza studi, hanno educato le nuove.

Hanno insegnato più di una cattedra.

Andati via senza dire addio.

Ci siamo dedicati a pieno ai gruppi Whats App.

Ai social.

Di questo ricorderemo sempre gli appuntamenti sui balconi.

A significare ci siamo, insieme e distanti, ma stiamo vivendo lo stesso momento.

Per un attimo avevamo perso il tram della vita quotidiana.

Ed è stato bellissimo.

Assaporando a pieno ogni aspetto vivo e magico che ci dona la vita.

E che avevamo totalmente dimenticato.

Abbiamo imparato a vederci dentro e a guardare fuori dalla finestra.

A notare finalmente che li, vi è un mondo, e che la vita per quanto bella possa essere, porta con sé delle venature amare.

Ma non è eterna.

Bisogna coglierla.

Apprezzarla.

Viverla.

Amarla.

Oggi tutto sembra quasi distante, come se in parte avessimo dimenticato, forse solo accantonato il buio di questi mesi precedenti.

Con una economia completamente a terra, agli sgoccioli.

Abbiamo solo immaginato strade deserte, saracinesche chiuse.

Oggi siamo nel pieno delle nostre azioni.

Ma dovremmo tutti, almeno una volta al giorno, sederci per qualche minuto e riflettere.

Esaminando la giornata che sta volgendo a termine.

E chiederci; oggi siamo felici o dovremmo fare di più per il nostro essere eliminando ogni malessere?

Non solo il lettore, ma anche chi sta scrivendo.

Dovremmo solo imparare a viverla con la stessa forza avuta in questi tre mesi.

Con la stessa leggerezza anche se le giornate erano pesanti.

Con la stessa vitalità.

Ogni cosa, quando avviene, lascia cose negative, ma se sappiamo cogliere anche l’aspetto positivo, è fatta!

Questo ci ha insegnato (forse magari non a tutti) che nulla dura in eterno, che dopo la notte, sorgerà sempre il sole.

Fino a quando possiamo guardarlo ed essere vivi, facciamolo.

Anche con gli occhiali da sole o a occhi nudi, ma facciamolo.

Un detto Zen diceva: concentrati sulle cose che hai, non su quelle che ti mancano.

Non possiamo tornare indietro, ma possiamo andare avanti e decidere il finale.

Sempre!

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