Quarant’anni dal 23 novembre 1980, non posso e non voglio dimenticare

Ogni anno, puntualmente questa data bussa alla porta della mia anima, del mio cervello, del mio cuore. Ogni anno questa data mi costringe a ricordare le notti trascorse a dormire sul cassone di un camion o in una branda in un tendone al chiarore di una stufa che non riscaldava, a piegarmi alla paura di allora, ad inginocchiarmi per una supplica ed una preghiera per chi in quel freddo giorno d’autunno inoltrato perse la vita.

Nicola Di Iorio

Quella data, ogni anno mi fa arrestare il cuore, come una sincope, e mi chiude la gola. Mi riporta ad una sera che non ho più rimosso dalla mia vita. Mi riporta alle urla di terrore delle donne e dei bambini, ai lampioni che cadevano, alle strade che si squarciavano sotto i piedi, alle case che si sbriciolavano, ai pianti nascosti di uomini rudi. A quarant’anni, da quella data mi riscopro antico e posizionato sul crinale della vita al posto della generazione dei miei nonni e di mio padre a guardare i figli che crescono, da un lato, e l’obiettivo finale che si fa sempre più vicino. Nessuna paura. La paura l’ho esaurita tutta quella sera.

In una strana serata domenicale, la natura aveva scatenato tutta la sua forza primordiale abbattendosi sul territorio irpino, già martoriato e privo di energie da una scandalosa e funesta emigrazione. Era il giorno in cui Juary, centravanti-ballerino di origini brasiliane, di un Avellino Calcio in serie A guidato in panchina da Vinicio e in campo da Di Somma, Vignola e Tacconi, che faceva sognare l’intera provincia, segnava qualche goal all’Ascoli di Costantino Rozzi, mettendo gli appassionati in debito con la gioia. La televisione, di un’epoca che oggi sembra remota, rimandava le immagini in bianco e nero di un tempo registrato di una partita di calcio tra la Juventus e la mia Inter.

Per le generazioni che hanno vissuto quel tragico momento scatenatosi alle 19,35 di domenica 23 novembre 1980 è ancora un dovere morale ricordare il rumore sordo e terrificante della mannaia che la natura aveva fatto abbattere sul collo degli Appennini. Spezzandolo. Si, tutto rotto e spezzato. Monumenti, case, strade, economia, sogni, speranze, gioie, vite.

Quella sera rivoluzionò la vita di tanti e purtroppo portò via tante vite, 280.000 sfollati, 8.848 feriti e, secondo le stime più attendibili, 2.914 morti. A volte la fortuna, a volte scelte improvvise, a volte premonizioni determinarono quella sera il confine tra la vita e la morte.

“Corri, scappa, attento …” le grida di un padre ad un figlio. “Mamma, vieni, esci!”. Niente. Paralizzata dalla paura. Il figlio la prende per un braccio e la trascina fuori. La porta d’ingresso non si apre. Non si riesce ad aprire. Poi il miracolo. Fuori all’aria aperta. Fuori? Ma che “fuori” era! I lampioni venivano giù. I piedi non riuscivano più a vincere la forza di gravità. Le grida terrorizzate e strozzate delle donne, dei bambini, sono ritornate per anni a tormentare il sonno di un adolescente. Il cornicione di una casa si stacca e cade lì a pochi metri. La vita diventa questione di dettagli. Un metro, due metri più in là e non ci sarebbe stato futuro. Gli occhi della mamma lacrimano per l’orrore, sbarrati. Il padre che cade. Il ragazzo che non riesce a capire. “Vuoi vedere che è la punizione divina…” per un bacio pomeridiano dato ad  una ragazza? Ma no! Non può essere.

Infatti, era solo il destino che tornava a presentare il suo periodico conto alla terra d’Irpinia. Poche gioie, tanti dolori.

Qualche giorno prima, quel ragazzo aveva visto, per la prima volta, una grande e vecchia foto di un immenso e straordinario leader politico trentino, Alcide De Gasperi, che, nel dopoguerra, nella piazza principale di Avellino arringava gli irpini chiamandoli, purtroppo, “Irpinesi”. Non la conosceva proprio nessuno questa terra e coloro che eroicamente vi hanno abitato. Nemmeno un illuminato presidente del Consiglio dei Ministri!

Sopravvivere, morire, risorgere, è stato ed è ancora il destino “vichiano” di questo pezzo di Mezzogiorno d’Italia. Archiviare l’Irpinia arcaica è stata la speranza successiva degli irpini. Creare le condizioni per rendere possibile il raggiungimento della modernità, dell’innovazione e dello sviluppo, è stato poi il sogno di tutti.

“Il Sud è morto”, scrisse Alberto Moravia sull’Espresso qualche giorno dopo il terremoto. Non suoni a scandalo o a facili critiche da romantici di un mondo nemmeno conosciuto. Ma se il Sud era quello che passava nei filmati dei vecchi telegiornali in bianco e nero… meglio che morisse. Per sempre. E quanto prima. E’ fuor di dubbio che qualcosa si poteva e si doveva salvare. La storia, le tradizioni, la cultura, i monumenti. Ma non la fame, non la miseria, non la povertà … non la polvere.

Quel terremoto mise a nudo la storica debolezza organizzativa dello Stato italiano nel fronteggiare le emergenze, denunciata dallo stesso presidente della Repubblica del tempo, Sandro Pertini, che in visita, tra le macerie, gridò con rabbia al mondo che bisognava fare presto per salvare vite e cose. L’Italia non aveva un sistema di protezione civile. Da allora, sotto la spinta di Giuseppe Zamberletti è nata una struttura che oggi viene utilizzata con efficienza e con una certa efficacia ovunque.

Ricostruzione e sviluppo, il binomio che la terra d’Irpinia e il Mezzogiorno hanno sentito come obiettivo primario da perseguire. In quel momento ci accorgemmo di non essere soli. Una nazione intera si affiancò al nostro dolore, per aiutarci a risorgere dai sepolcri che la terra aveva costruito. Gli Irpini sono gente dalla scorza dura. Non muoiono mai. Silla non riuscì nell’intento di sterminarci nell’82 a.C. Non ci riuscirà niente e nessuno, e Dio solo sa quanti ci hanno provato.

Quel tempo alimentò speranze e sogni che non si sono mai affievoliti, nemmeno quando l’Irpinia si accorgeva di venire espropriata da altri territori del suo ruolo, non voluto e non cercato, di vera vittima del terremoto del 23 novembre 1980, e quando l’Irpinia fu fatta precipitare in uno scandalo passato alla storia con il termine americanizzato di “Irpinia-gate”, la cui responsabilità non è stata possibile far gravare su di essa e sui suoi cittadini, nonostante i tentativi preparati e perpetrati da una becera e meschina malta di interessi economici e politici, locali e nazionali.

E’ innegabile che la catastrofe di quella giornata, se da un lato, ha portato lutti e rovine, dall’altro ha segnato uno spartiacque nella storia della crescita economica e sociale di questa terra.

La scommessa che il territorio aveva di fronte non era solo quella di ricostruire i manufatti ma anche, nello stesso tempo, di creare le condizioni per evitare un nuovo processo migratorio, un nuovo svuotamento del territorio tentando di renderlo ricettivo anche ad uno sviluppo industriale maturo, mai conosciuto in passato, che riuscisse anche ad essere un volano per la crescita complessiva dell’Irpinia, alimentando e rafforzando anche i settori dell’agricoltura e dei servizi. “L’industria in montagna”, scommessa non semplice da vincere. Le industrie, tra luci e ombre, tra successi e fallimenti, si sono comunque insediate generando nuova ricchezza, flussi di ritorno degli emigrati, nuova occupazione e creando un tessuto e un “humus” favorevoli a nuovi insediamenti successivi.

Quel terremoto, con i suoi lutti, le sue tragedie e le sue distruzioni, è stato la linea di partenza di un nuovo mondo per un Sud che comunque aveva già contribuito allo sviluppo e alla crescita dell’intera nazione, con il sacrificio, con il sangue ed il sudore di intere generazioni trasferitisi al Nord.

Nel 1984 gli Stadio, un noto gruppo musicale, scrissero una canzone dal titolo “Chi erano i Beatles”. Nelle intenzioni di Gaetano Curreri e Lucio Dalla vi era il tentativo di spiegare alle giovani generazioni la storia del passato che ovviamente non conoscevano facendo riferimento ai giganti della musica che hanno cambiato la storia, i Fab Four di Liverpool.

In effetti la storia umana, da sola e di per sé, rischia solo di diventare «un grande fiume di oblio». Il tempo che trascorre, il passaggio delle generazioni rasano la memoria come se il passato non fosse mai stato un presente e come se il presente non fosse una derivazione del passato.

Quella data va ricordata, non solo in Irpinia e in Campania ma anche nel resto d’Italia. Io ero ragazzo all’alba della mia vita, non posso e non voglio dimenticare!

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui