Si va al voto il 20 e 21 settembre. Un appuntamento con la libertà e la democrazia

Con l’esaurimento delle procedure per la presentazione delle liste e dei candidati, si apre il balletto elettorale che porterà l’Italia al voto, fra il 20 e il 21 settembre, dopo lo slittamento avvenuto a causa dell’applicazione delle misure di contenimento dell’epidemia derivante dal Covid-19.

Si andrà alle urne in Veneto, Campania, Toscana, Liguria, Marche, Puglia e Valle d’Aosta per eleggere i rispettivi Presidenti e Consigli Regionali.

Grazie al decreto Elezioni al voto per le Regionali sarà accorpato anche quello per il primo turno delle amministrative e quello per il referendum sul taglio dei parlamentari.

In effetti, per il rinnovo degli organi degli enti locali, si terranno anche le Elezioni Comunali, con ballottaggi fissati per il 4 e 5 ottobre, in ben 1.184 Comuni.

Il turno delle elezioni amministrative nei Comuni della Regione siciliana è invece fissato per il 4-5 ottobre 2020, con eventuale turno di ballottaggio fissato per il 18-19 ottobre 2020, mentre nella Regione Sardegna la data non è stata ancora definita.

Ma, in questo appuntamento elettorale, si aggiunge anche l’importante referendum costituzionale sulla riduzione di un terzo del numero dei parlamentari di Camera e Senato.

E’ del tutto evidente che la tornata elettorale che il Paese si appresta a vivere non può essere considerata banale e routinaria, potendo determinare scenari futuri che potrebbero essere anche deflagranti per la solidità del Governo nazionale.

Ma in questa tornata, soprattutto emerge, con una certa drammatica preoccupazione, che le giornate elettorali rischiano di posizionarsi nella curva ascensionale di una epidemia da Covid-19 che non decide di arrestarsi. Inoltre, le stesse giornate elettorali arrivano dopo appena una settimana dalla prevista, ma ancora non certa, riapertura delle scuole.

Insomma un bel guazzabuglio.

In tutto questo vi sono i destini di intere comunità, locali e regionali, cui badare. Diciamola tutta, non sono convinto che il sistema regionalistico sia quello che meglio si confà alla civiltà giuridica e sociale nostra Penisola.

La storia italiana sta lì a narrare una realtà diversa, basata sui comuni o, tutt’al più, su piccole aggregazioni territoriali.

E’ stata scelta in questi ultimi dieci anni, in modo insensato, la strada di annichilire gli enti sovracomunali, come le Comunità Montane e le Province, per lasciare spazio ad un vero mostro come l’istituto regionale, nato per scelta costituzionale per essere un soggetto di programmazione,pianificazione e di controllo ma diventato, nel tempo, un soggetto di gestione assurgendo a centro di costo, spaventoso e vorace, con l’aggravante di non essere sempre in grado di assicurare politiche, in ogni settore, efficaci, uguali e coerenti dalle Alpi a Pantelleria.

Ma tant’è. Oggi, il rischio è che la valutazione che l’elettore deve effettuare sia soverchiata dall’emotività del momento pandemico dimenticando, di contro, la gestione degli anni precedenti.

Ma anche questo fa parte del gioco.

Purtroppo rischia di passare nel dimenticatoio forse il momento più importante di questa tornata elettorale, il referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari. Su questo referendum bisognerebbe soffermarsi un pò di più.

Si tratta di un referendum confermativo in quanto con il voto si confermerà o meno la riforma votata in Parlamento e che, non avendo raggiunto la maggioranza dei due terzi, deve subire il vaglio dell’elettorato come è previsto dalla Costituzione.

Questo consultazione referendaria sarà il quarto referendum costituzionale nella storia della Repubblica Italiana (gli altri tre sono stati il referendum sul Titolo V del 2001, quello sulla riforma costituzionale del centrodestra nel 2006 diretta a modificare addirittura la seconda parte della Costituzione e quello sulla riforma costituzionale voluta dal PD renziano nel 2016).

Dell’esito positivo del referendum relativo alla riforma del Titolo V, ancora oggi, il panorama politico nazionale si mangia i gomiti visti gli impatti, quasi sempre negativi, che ha avuto sulla vita quotidiana dei cittadini.

Come se una riforma, per definizione, debba essere sempre migliorativa.

Nel caso del referendum del 20 e 21 settembre, in caso di approvazione, è prevista la riduzione dei seggi alla Camera dei Deputati, da 630 a 400, e quelli al Senato, da 315 a 200.

In sostanza la riduzione di circa un terzo dei parlamentari farebbe passare dai circa 96mila abitanti per deputato a circa 151mila. E’ bene precisare che ad oggi l’Italia vanta un numero di parlamentari, per numero di abitanti, simile a quello dei grandi paesi europei. Se passasse la riforma diventerebbe invece uno degli Stati con il più basso livello di rappresentanza politica in rapporto alla popolazione dell’intera Unione Europea.

Le conseguenze sarebbero devastanti soprattutto sul versante della garanzia di accessibilità alle cariche pubbliche di ogni cittadino. A differenza di quanto si possa ingenuamente pensare non solo si allontanerebbe il rappresentante dai territori rappresentati, per effetto della loro dilatazione, ma si precostituirebbero le condizioni per creare una vera casta, secondo il vecchio e conosciutissimo programma piduista.

A fronte di una riduzione di costi, irrilevante sui conti pubblici italiani, vi è una evidente contrazione delle libertà costituzionali degli italiani.

In gioco c’è proprio questo: meglio una insignificante riduzione dei costi o una permanente riduzione della libertà del cittadino privato nel diritto di voto di essere rappresentato da una espressione del territorio?

Forse sarebbe stato meglio rivedere il sistema elettorale che invece fa comodo a tutti i partiti e movimenti, nuovi solo per definizione assiomatica.

Come è abbastanza noto la riforma costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari era stata approvata ad ottobre 2019 con il voto favorevole praticamente di tutti i partiti ed avrebbe dovuto tenersi il 29 marzo. Ma a causa della pandemia è stato rinviato ed accorpato al voto per il rinnovo dei presidenti di sette Regioni e di un consistente numero di comuni.

L’invito al cittadino-elettore, dal quale non vogliamo e non dobbiamo sottrarci, è di esercitare il proprio diritto di voto non sulla base di una onda emotiva ma di una attenta riflessione.

Un sindaco o un Presidente di regione li si può sempre cambiare in corso d’opera, ma una riforma costituzionale, addirittura cattiva, rischia di produrre effetti non più rivedibili.

Il voto di settembre è un appuntamento con la libertà e la democrazia.

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